Abbiamo bisogno di zebre e struzzi

La storia

Noelle Faulkner ha circa trent’anni quando, per l’ennesima volta nella sua vita, si sente sopraffatta. Burnout è la diagnosi, ma lei sente che quello è il sintomo non la causa. Gli psicologi provano a indagare: ansia da prestazione? Perfezionismo cronico? Sovraccarico di lavoro? Niente di tutto questo. Due dottori, un esame del sangue, un test ormonale e un anno e mezzo dopo, racconta sul Guardian, i suoi sintomi hanno finalmente un nome. Noelle scopre che come moltissime altre donne ha mascherato per tutta la vita una grave ADHD, ovvero il disturbo da deficit di attenzione e iperattività.

Cos’è?

Forse ne hai sentito parlare in ambito scolastico perché in genere si diagnostica sui bambini: l’ADHD è uno dei tanti modi diversi in cui funziona il cervello umano. Una neurodivergenza, insomma. Nello specifico, riguarda l’attenzione: rende più difficile pianificare, stabilire le priorità, evitare gli impulsi, ricordare le cose e concentrarsi. E riguarda tra il 5 e il 7,1% della popolazione mondiale.

Perché non gliel’hanno diagnosticata da piccola?

Perché l’ADHD è diagnosticata molto più spesso nei maschi, che la manifestano come iperattività. Per un complesso sistema di regole sociali, nelle femmine ha sintomi diversi: «Le ragazze con ADHD sono spesso liquidate come “sognatrici ad occhi aperti” e “eccessivamente sensibili”, come se fossimo una caricatura romantica e stravagante di un romanzo di John Green o del canone delle Principesse Disney», racconta Noelle.

Che conseguenze ha sul lavoro?

Noelle, come succede a gran parte delle donne con ADHD, diviene esperta nel mascherare i sintomi. Appare intelligente e dotata perché la sua mancanza di autostima la porta a lavorare duramente e a compensare il disturbo con l’iperfocalizzazione, producendo lampi di brillantezza. Ma quando la maschera cade, la voragine del burnout si apre.

Cosa succede dopo la diagnosi?

A parte il senso di impotenza per tutte le ragazze perdute la fuori, Noelle acquisisce «un arsenale di strumenti» per impedirsi di cadere di nuovo in un buco. Sapere di avere l’ADHD significa essere in grado di apportare modifiche al proprio ambiente di lavoro per ridurre i fattori scatenanti. Hanna Brooks Olsen, per esempio, anche lei diagnosticata ADHD, mette in fila qui 6 cose che le permettono di lavorare bene (utili in generale per chi fatica a concentrarsi):

  • pause programmate e frequenti

  • notifiche ben organizzate sui device elettronici

  • sincronizzazione di tutti gli strumenti per prendere appunti

  • utilizzo di cuffie Loop per ridurre le intromissioni acustiche

  • diffusione nell’ambiente di fragranze che il suo olfatto associa al lavoro

  • piccoli sorsi di acqua fredda da bere frequentemente: il perché te lo lascio scoprire nel suo articolo.

E se ho un cervello neurodivergente nel mio team?

Secondo Fast Company, hai un’opportunità straordinaria: «Nel corso della storia, le persone neurodivergenti sono state un motore di creatività e innovazione in tutti i campi del pensiero, dalla letteratura alla tecnologia». Come mai? «l pensiero lineare ottiene risultati coerenti, è prevedibile, orientato al processo e testato nel tempo», dice qui Susan A. Fitzell. I pensatori neurodiversi, invece, sono portatori di creatività, iperfocus e pensiero laterale: «I team hanno bisogno di entrambi i tipi di pensatori per ottenere i massimi risultati». Tutto sta a essere in grado di accogliere e ad attrarre i talenti neurodivergenti, e di abbattere le barriere che impediscono loro di trovare spazio nel luogo di lavoro.

Ma come si fa?

«I pensatori atipici sono consapevoli di ciò in cui sono bravi e dolorosamente consapevoli delle loro debolezze», scrive Susan A. Fitzell. «Pertanto, è essenziale consentire ai dipendenti di utilizzare la propria esperienza e mostrare ciò che possono fare. Dai loro l'autonomia per avere successo. I pensatori divergenti prosperano quando sono consapevoli del quadro generale, del loro posto in esso e del motivo per cui il loro lavoro è essenziale. Avere uno scopo chiaro aiuta a creare il buy-in emotivo necessario per il successo». In generale, ciò che serve è introdurre dei meccanismi sistemici di inclusione come quelli messi in fila qui da Harvard Business Review.


Zebra e struzzi si guardano l’un l’altro. Le zebre hanno un ottimo senso dell’olfatto e dell’udito ma una vista scarsa. Mentre lo struzzo ha una vista eccezionale ma non un udito o un olfatto eccezionali. Viaggiano spesso insieme e si avvertono quando arriva il pericolo. Ogni animale beneficia della forza dell’altro animale. Questa relazione li tiene al sicuro dai leoni a caccia.
— Susan A. Fitzell

Questo articolo è tratto dal numero 58 del 6 maggio 2023 della newsletter “Voices”, una newsletter settimanale di Diagonal curata da Annalisa Monfreda. Ogni settimana racconta storie, voci, dati e approfondimenti per ispirarti lungo il percorso verso un’azienda inclusiva. Siamo infatti convinte che la diversità sia la più grande opportunità di innovazione che abbiamo, l’occasione di riscrivere le regole del lavoro, di ridisegnarne i riti, gli spazi, la cultura. Se desideri iscriverti clicca qui. Ti aspettiamo!

Annalisa Monfreda