Di cosa parliamo quando parliamo di quiet quitting
Di cosa stiamo parlando
Quiet quitting è una espressione divenuta virale come hashtag su TikTok. La traduzione letterale sarebbe “dimettersi silenziosamente”. Ma in realtà descrive l’atteggiamento di chi si limita a fare ciò per cui è stato assunto, nulla più, nulla di meno. In termini di tempo ma anche di coinvolgimento.
Che c’è di nuovo?
Nulla. Il quiet quitter è una tipologia di lavoratore che esiste da sempre. Forse la novità a cui assistiamo è l’orgogliosa rivendicazione di appartenere alla categoria, con tanto di dichiarazioni video. A scatenarla, probabilmente, è stata l’enfasi posta sulla grande dimissione. Fenomeno di cui il quiet quitting è l’altra faccia. La faccia di chi non può permettersi di lasciare il lavoro ma ha ugualmente a cuore la propria salute mentale, la salvaguardia degli affetti e delle attività extralavoro.
Come l’hanno presa le aziende?
Male, molto male. Gli esperti di lavoro ne approfittano per stimolare all’interno delle organizzazioni una riflessione autocritica e per suggerire loro l’antidoto più di buon senso: avviare conversazioni significative con i dipendenti, con tanto di elenco di domande da cui cominciare.
È davvero un fenomeno preoccupante?
No, piuttosto è uno dei fenomeni più interessanti che si osservano negli ultimi tempi. Nella marea di riflessioni sul quiet quitting tra cui ho navigato ce ne sono due che mi sembrano inquadrare la questione al meglio.
È la conseguenza di un nuovo rapporto col tempo e col denaro. Lo dice il sociologo Francesco Morace nel podcast Corriere Daily: le giovani generazioni «sanno bene che questa loro attitudine li porterà a guadagnare meno ma ragionano sul fatto che risparmiano tempo e che in quel tempo possono fare cose che magari a loro volta possono farli guadagnare».
Permette di testare l’equilibrio delle organizzazioni. La società occidentale ha creato uno standard del lavoratore di successo per cui «tendiamo a premiare le persone che “fanno qualcosa in più”» scrive Austin Mackesy-Buckley «Sono queste persone che diventano la prossima generazione di manager e leader e quindi stabiliscono le stesse aspettative». Questo standard è funzionale al capitalismo e alla sua filosofia della massimizzazione dei profitti, perché «significa ottenere il massimo dai dipendenti per aumentare la produzione risparmiando sui costi». Ma «questo comportamento alla fine gonfia la produttività e stabilisce un ritmo artificiale. Un ritmo che, sebbene allettante, non può essere mantenuto all’infinito». Il quiet quitting alla luce di questo sarebbe lo «strumento che rivela il vero stato di equilibrio dell’organizzazione». Sarebbe il rivelatore del reale livello di produttività di un’azienda. In un articolo in cui spiega ai datori di lavoro come prevenire il quiet quitting, Chris Bergen dice una cosa molto giusta: «Se questo comportamento causa problemi alla tua organizzazione, significa che devi rivedere le job description».
A proposito di massimizzazione del lavoro dei dipendenti
I pomodori insipidi sono il risultato del tentativo di far «resistere i pomodori allo stress di essere spediti in tutto il mondo e avere ancora molta durata di conservazione: le aziende produttrici di pomodori hanno massimizzato la rusticità e la bellezza e si sono dimenticate del sapore». Con questo esempio dei pomodori insipidi, Wally Bock ci introduce al concetto del costo. «Diciamo che vuoi massimizzare le tue prestazioni lavorative. Hai buone intenzioni. Pensi che se massimizzi le tue prestazioni lavorative aumenterai il tuo reddito, prestigio e autonomia. OK. Ma a quale costo?».
Cosa succederebbe se promuovessimo i quiet quitters?
«Probabilmente finiremmo con persone più efficaci con il proprio tempo e rispettose degli altri», conclude Austin Mackesy-Buckley. «Finiremmo con persone che fanno il possibile solo perché vogliono veramente aiutare, non perché pensano che sia l’unico modo per ottenere un aumento. Finiremmo con persone più sane. Forse, solo forse, finiremmo anche con un’organizzazione più sana».
Massimizzare una cosa riduce al minimo le altre. Tempo, denaro e altre risorse sono limitati.
I costi di alcune massimizzazioni non si manifestano per molto, molto tempo.
La parola “massimizzare” dovrebbe far scattare la domanda: “A quale costo?”Wally Bock
Questo articolo è tratto dal numero 39 del 8 ottobre 2022 della newsletter “Voices”, una newsletter settimanale di Diagonal curata da Annalisa Monfreda. Ogni settimana racconta storie, voci, dati e approfondimenti per ispirarti lungo il percorso verso un’azienda inclusiva. Siamo infatti convinte che la diversità sia la più grande opportunità di innovazione che abbiamo, l’occasione di riscrivere le regole del lavoro, di ridisegnarne i riti, gli spazi, la cultura. Se desideri iscriverti clicca qui. Ti aspettiamo!