Generazione burnout

La storia

Questa la sai: Jacinda Ardern, la premier neozelandese, si è dimessa dal suo incarico. Non per una crisi di governo, ma per l’esaurimento di energie a disposizione per portare avanti l’incarico. Non lo nomina mai ma lo descrive perfettamente: il burnout.

Cos’è il burnout?

Usiamo le sue parole: «So cosa richiede questo lavoro e so che non ho più abbastanza risorse per rendergli giustizia. È così semplice. Non ho più le energie per altri quattro anni». La studiosa Elissa Epel spiega che c’è una differenza specifica tra burnout e depressione: «La depressione spesso si concentra sul sé e sul sentirsi inutili o sull’essere autocritici. Il burnout invece è lo stress cronico insostenibile dovuto alle richieste del lavoro, sia che si tratti di lavoro non retribuito a casa, sia che si tratti della tua professione retribuita».

Chi arriva così in alto può permetterselo?

Il burnout, come la maggior parte dei disagi mentali, porta con sé uno stigma. Nella fattispecie, quello di colpire personalità fragili, incapaci di reggere lo stress, che si sono spinte troppo in là rispetto alle proprie possibilità. Questo perché consideriamo le condizioni che portano al burnout connaturate a certi lavori di responsabilità. «Per chi sale le scale del potere e quindi ha grandi responsabilità decisionali, il lavoro è fatto di lunghe notti, innumerevoli e-mail, trattative, accordi, macinare, spingere e battere i rivali», scrive Ted Bauer. «Per quelle persone, il burnout e “il modo in cui lavoriamo” sono la stessa cosa». Jacinda Ardern ha rotto questo schema. Si può essere una leader celebrata in tutto il mondo per come ha gestito la più grave strage terroristica della storia neozelandese prima e la pandemia dopo, ma poi dire “No, basta!” di fronte al sopraggiungere del burnout. 

C’entra il fatto che sia donna?

Questa cosa la sentiremo spesso: c’è chi assocerà la sua scelta al doppio ruolo di mamma e premier, c’è chi dirà che in quanto donna ha più coraggio e chi dirà che in quanto donna non ha retto la violenza degli attacchi di cui è stata vittima. Non mi convince nessuna di queste tesi. L’unica riflessione che sento di fare sul genere di appartenenza della Ardern è questa. Quando non assomigli al prototipo di persona assegnato a un certo ruolo, è forse più semplice interpretarlo in modo nuovo. E quindi «smettere di paragonare la propria storia a un modello ideale, smettere di inseguire un benchmark che non riflette chi siamo», come scrive Riccarda Zezza. Questo è uno dei pochi vantaggi che abbiamo quando rappresentiamo una unicità nella stanza. Ardern ha interpretato la leadership in modo personale ha onorato un ruolo, lasciandolo andare, dice Zezza.

C’entra il fatto che sia giovane?

Questo sì è un elemento interessante. Sicuramente la scelta di Jacinda Ardern ci parla di una generazione che ha messo la salute mentale al primo posto. Attenzione, non una generazione vittima da epidemia di burnout, ma consapevole dei rischi che esso comporta e della responsabilità di fare un passo indietro quando se ne riconoscono i sintomi. E a questo proposito, il mio consiglio di lettura è il capitolo L’età dell’ansia nel libro L’ora del caffè. Manuale di conversazione per generazioni incompatibili, in cui Gianrico Carofiglio dialoga con sua figlia Giulia, la quale cerca di spiegargli perché la sua generazione ha così a cuore il benessere della mente.

È una cosa che farà bene alle donne?

Più di quanto si possa immaginare. C’è un’analisi molto interessante del New York Times, fatta in occasione di altri celebri No, quello di Naomi Osaka e Simone Biles, che calza perfettamente con questa situazione. La femminista Moira Donegan dice che le libertà delle donne si dividono in due categorie: diritti a dire sì e diritti a dire no. Tra i diritti a dire sì c’è quello di diventare premier, di essere pagata come un uomo, di accedere a certe discipline sportive eccetera eccetera Tra i diritti a dire no, c’è quello di rifiutare le richieste degli allenatori, nel caso delle sportive, o di piegarsi a un certo modo di lavorare, nel caso della carriera. Mentre il diritto al “sì” viene celebrato e sostenuto, il diritto al “no” viene più spesso osteggiato e considerato il tradimento di quel “sì” faticosamente ottenuto. Ma la verità è che non potremo dirci libere finché non li possederemo entrambi. Perciò, grazie Ardern.

Questo articolo è tratto dal numero 49 del 21 gennaio 2023 della newsletter “Voices”, una newsletter settimanale di Diagonal curata da Annalisa Monfreda. Ogni settimana racconta storie, voci, dati e approfondimenti per ispirarti lungo il percorso verso un’azienda inclusiva. Siamo infatti convinte che la diversità sia la più grande opportunità di innovazione che abbiamo, l’occasione di riscrivere le regole del lavoro, di ridisegnarne i riti, gli spazi, la cultura. Se desideri iscriverti clicca qui. Ti aspettiamo!

Guest User