Kamala Harris e il diritto delle donne a fallire
Il diritto di fallire
La notizia
Lo staff di Kamala Harris si sta sfaldando. Il primo dicembre si è dimessa la sua portavoce, Symone Sanders. Qualche settimana prima la sua direttrice della comunicazione, Ashley Etienne.
Perché tutti ne parlano?
Kamala Harris sta avendo un forte calo di popolarità. Queste dimissioni sembrano confermare le voci secondo cui «lo staff della vicepresidente sta appassendo in un ufficio disfunzionale e frustrato». Intervistate da Politico, fonti interne hanno raccontato che «le persone vengono ignorate, c’è grande irascibilità e un ambiente offensivo».
È divenuta impopolare per questo?
Non solo. Sotto accusa ci sarebbe anche la sua scarsa incisività (lackluster la definiscono: mediocre), errori di comunicazione (risatine fuori posto e discorsi infelici) ed episodi oggettivamente poco rilevanti (pare abbia comprato una pentola e un vassoio da 500 euro, per giunta in Francia, senza scegliere marchi statunitensi).
Sta davvero lavorando male?
Lascerei agli analisti politici la risposta a questa domanda. Ciò che osservo è la parabola narrativa attraversata da Kamala Harris nell’arco degli ultimi 12 mesi. Dall’incoronazione a futura presidente prima di aver compiuto una singola azione da vice, all’attuale critica di ogni singola mossa, benché «la vicepresidenza non vale un secchio di piscio caldo», come ebbe a dire John Nance Gardner, il primo vice di Roosevelt.
Esiste dunque una doppia misura?
Un’attenta osservatrice come Marilisa Palumbo, nel podcast Corriere Daily, ipotizza che forse «si sta alzando l’asticella per il fatto che è la prima vice donna, la prima di discendenza asiatica e la prima di discendenza afroamericana. La sua storia la imprigiona nel ruolo di Obama donna che è difficile da interpretare».
Vale anche per le dimissioni del suo staff?
Può essere che Harris sia un pessimo capo. Ma può essere pure che uno stesso ambiente di lavoro venga percepito come esigente e selettivo, oppure come disumano e disfunzionale, a seconda che il capo sia uomo o donna. Hai presente Jill Abramson, la prima donna direttrice del New York Times nel 2011? A proposito del suo licenziamento, nell’autobiografia racconta che il publisher del giornale le attribuì comportamenti troppo duri con la redazione, scenate, rimproveri smodati. «Insomma venne licenziata non per la linea editoriale né per i risultati ma per l'essere giudicata “bitch”, donna insopportabile», ha scritto Gianni Riotta sulla Stampa.
Cosa stai cercando di dirmi?
Ogni volta che una donna raggiunge una posizione storicamente appartenuta a un uomo, lo schema narrativo in cui siamo imprigionati ci porta a farne un simbolo e a caricarla di aspettative enormi. Un suo eventuale fallimento, a quel punto, si trasforma in una caduta da un trampolino altissimo.
Nessuno può reggere un tale carico di aspettative. Nessuno è degno di celebrazione per ogni aspetto della sua vita. Restituiamo alle donne il diritto di fallire se vogliamo creare spazio per loro.
Cosa possiamo imparare da questa storia
Le aziende che vogliono aumentare la presenza femminile nei ruoli manageriali si scontrano prima o poi con un ostacolo: la scarsa disponibilità delle donne a farsi avanti. A causarla non è solo il confidence gap, ovvero lo scarto di fiducia in loro stesse rispetto agli uomini. Ma anche la narrazione eroica da cui siamo costantemente bombardati per cui una donna leader o fa cose straordinarie o si rivela del tutto inadeguata.
Normalizzare la leadership femminile significa aprire le porte, in azienda, al racconto non solo delle role model lontane e irraggiungibili, ma delle vicine di scrivania: degli errori, degli ostacoli, delle cadute, della risalite che hanno dovuto affrontare.
Questo articolo è tratto dal numero 4 del 11 dicembre 2021 della newsletter “Voices”, una newsletter settimanale di Diagonal curata da Annalisa Monfreda. Ogni settimana racconta storie, voci, dati e approfondimenti per ispirarti lungo il percorso verso un’azienda inclusiva. Siamo infatti convinte che la diversità sia la più grande opportunità di innovazione che abbiamo, l’occasione di riscrivere le regole del lavoro, di ridisegnarne i riti, gli spazi, la cultura. Se desideri iscriverti clicca qui. Ti aspettiamo!