La tua azienda ti ha detto a cosa serve l’ufficio?
La storia
Quando l’azienda Gusto ha lanciato un canale Slack per i lavoratori da remoto, la prima cosa che le persone hanno fatto è stata condividere le loro posizioni e pianificare incontri di persona.
Non avranno mica nostalgia dell’ufficio?
Non esattamente. Questo piccolo episodio racconta piuttosto che non è vero che gli amanti dello smartworking siano persone asociali. «L’80% dei nostri dipendenti remoti intervistati ha dichiarato di voler entrare in contatto con i colleghi tramite interessi comuni, mentre il 73% ha affermato di voler entrare in contatto con le persone che vivono vicino a loro», scrive Liberty Planck su Fast Company, dove sfata diversi altri miti sul remote working.
Ma sono le stesse argomentazioni dei fautori del ritorno in ufficio
Esattamente. Prendiamo Steve McKee, co-founder di un’azienda di consulenza. I suoi 5 motivi per cui le aziende hanno bisogno di uffici ruotano attorno a questo concetto: «Il lavoro a distanza è fantastico quando hai il raffreddore, nevica o hai bisogno di tempo ininterrotto per concentrarti. Ma gli affari, come tutta la vita, riguardano le relazioni e le relazioni riguardano lo stare insieme. Le sane culture aziendali sono costruite attorno a convinzioni comuni, simpatie e pratiche collettive, che sono tutte meglio coltivate in un ambiente condiviso e tutte soffrono a distanza», scrive.
L’ufficio, però, non era stato progettato per questo
Benché oggi ne rimpiangiamo la funzione sociale, l’ufficio, così come la fabbrica prima di esso, non è nato come strumento di connessione ma di produttività. Le file di scrivanie, una di fianco all’altra, dove le persone compiono lo stesso compito cognitivo più e più volte al giorno, non sono molto diverse dalle file di persone organizzate in catene di montaggio per fare lo stesso compito fisico. Ecco perché siamo tornati volentieri al cinema, al teatro, al ristorante ma non in ufficio.
Forse ho capito dove vuoi arrivare
Prima ridefiniamo il ruolo dell’ufficio e poi chiediamo alle persone, periodicamente, di tornare. Quando ai lavoratore viene detto di rientrare determinati giorni a settimana, solo per «svolgere gli stessi compiti che avrebbero svolto a casa, ma con l’aggravio del costo del pranzo e dello spostamento, iniziano a dubitare del sistema di valori della loro organizzazione», scrive Anne Helen Petersen. «L’ufficio è per le riunioni? Per una collaborazione creativa? Per incontrarti faccia a faccia con il tuo manager? Perché altre persone notino la tua presenza e ti sorveglino in silenzio? Per la “magia” di incrociarsi nei corridoi? I primi due sono buoni motivi per essere in ufficio. Il terzo, mah. Il quarto può saltare da un dirupo in un abisso di cattivi libri di gestione. Il quinto fa semplicemente sentire i lavoratori come se i loro leader li trattassero come bambini. Ancora una volta: non puoi convincere le persone a stare in ufficio se non sanno a cosa serve l’ufficio».
Come riprogettiamo dunque l’ufficio?
Se decidiamo che ha senso utilizzarlo per ricostruire il capitale sociale, allora come prima cosa dobbiamo bandire, durante il tempo trascorso in presenza, il lavoro indaffarato. E creare intenzionalmente lo spazio per riconnettersi. «Incoraggia i team a stabilire norme sui tempi di risposta previsti mentre sono in ufficio in modo che la presenza non diventi una confusione di scadenze sovrapposte», scrive Chris Capossela su HBR. «E per alleviare l’ansia dovuta all’accumulo di lavoro, prendi in considerazione l’idea di organizzare giornate libere dalle riunioni o incoraggia i dipendenti a “prenotare” il tempo per la concentrazione in modo che sappiano che possono recuperare il ritardo in seguito».
C’è un problema però
Dopo aver riprogettato gli uffici dovremo riprogettare anche le nostre case, o meglio il nostro spazio mentale. Altrimenti soffriremo dell’attuale “malattia”, ovvero: l’onnipresenza del lavoro. Prima avevamo uno spazio fisico, dei segnali ambientali che ci aiutavano a delineare il tempo del lavoro e quello libero. Ora «la casa non è più uno spunto ambientale per mettere da parte il lavoro. È un luogo che ti ricorda costantemente che c’è sempre più lavoro da fare», scrive Lawrence Yeo. Che poi si domanda: in mezzo all’onnipresenza del lavoro, la nostra mente potrà mai smettere di identificarsi con il bisogno costante di produrre? Riusciremo a non definire noi stessi in base a ciò che siamo in grado di produrre?
Per fortuna, c’è anche una soluzione
«L’unica soluzione all’onnipresenza del lavoro è un cambiamento intenzionale nella cognizione, dobbiamo volontariamente spostare la mente dal desiderio incessante di produrre, verso un appagamento periodico dello stesso», scrive Yeo. Dobbiamo sostituire, insomma, ai segnali ambientali che una volta ci dicevano che era arrivato il momento di “staccare”, la nostra volontà e intenzione di farlo.
Questo articolo è tratto dal numero 43 del 5 novembre 2022 della newsletter “Voices”, una newsletter settimanale di Diagonal curata da Annalisa Monfreda. Ogni settimana racconta storie, voci, dati e approfondimenti per ispirarti lungo il percorso verso un’azienda inclusiva. Siamo infatti convinte che la diversità sia la più grande opportunità di innovazione che abbiamo, l’occasione di riscrivere le regole del lavoro, di ridisegnarne i riti, gli spazi, la cultura. Se desideri iscriverti clicca qui. Ti aspettiamo!