Sulle quote rosa in azienda

L’aneddoto

Quando appare sulla celebre rivista Life, la 16enne campionessa di scacchi Beth Harmon si accorge con disappunto che non hanno scritto nulla della sua inespugnabile difesa siciliana.
«Diventerai famosa» le dice sua madre.
«Solo perché sono una donna» risponde lei.

Perché me ne parli?

Mi è tornata in mente La regina degli scacchi quando, a Sanremo, l’attrice Lorena Cesarini ha mostrato i tweet che dicevano: «Sei su quel palco solo perché sei nera». Una cattiveria. Ma la sensazione che Lorena fosse “una quota” ce l’abbiamo avuta in tanti.

Sta succedendo anche in azienda

Negli ultimi anni, molte aziende hanno aumentato la presenza di donne nei ruoli apicali con una politica di promozioni preferenziali. «L’hanno promossa solo perché è una donna» è il refrain che sento più spesso nelle conversazioni tra amici. «Per due secoli è successo il contrario» sono solita rispondere. Mai, però, avevo riflettuto su cosa comporti, a livello psicologico, sentirsi “una quota” e sulle conseguenze che questa nuova guerra dei sessi avrà sul lungo periodo.

A proposito di quote

Qualche anno fa Angela Merkel raccontò che la sua ascesa politica fu dovuta al fatto che era donna, giovane e dell’Est. Incarnava, in pratica, “una quota” a cui il cancelliere Helmut Kohl, nel 1994, doveva dare voce se voleva evitare crisi di governo. È solo grazie a una quota che la Germania è cambiata profondamente. Ed è grazie alle quote che oggi l’Italia è fra i Paesi in Europa con più presenza di donne nei consigli di amministrazione: una media del 36%, con picchi di virtuosismo come Prada.

Sento che c’è un però

Non tutte abbiamo l’autostima di una Merkel, che nasce “quota” e poi fa la storia. E non basta la presenza di donne nei cda a portare a un loro aumento nei ruoli dirigenziali delle aziende, che oggi sono costrette a ricorrere a promozioni forzate. Dobbiamo prenderne atto: le quote da sole non bastano. E iniziano a rendere un pessimo servizio alla causa.

Che alternativa abbiamo?

Invece di scrivere nuove leggi per far promuovere le donne, basterebbe cancellare quelle vecchie che le tengono lontane dai ruoli di responsabilità. Così avrebbe risposto la giudice della Corte Suprema Usa, Ruth Bader Ginsburg, che aveva contato ben 178 leggi discriminanti sulla base del sesso, come quelle che impedivano alle donne di fare straordinari. Se pensi che in Italia non ce ne siano, me ne viene in mente una per tutte: il congedo parentale obbligatorio. Per le donne è di cinque mesi, mentre per gli uomini di 10 giorni. Una misura che in molte parti d’Europa è stata corretta, equiparando il periodo tra i due sessi.

Ok, ma quella è politica. Intanto in azienda che si può fare?

Guardiamoci attorno: l’ambiente di lavoro, i ritmi, il prototipo di chi ha successo, i rituali per fare carriera sono sempre gli stessi. Quello a cui assistiamo è un tentativo di assimilazione delle donne, non un processo di inclusione. Si scelgono attori con fattezze nuove per interpretare copioni vecchi, innescando una pericolosa concorrenza tra i generi. «Ogni crociata per il diritto delle donne di entrare in tutti i campi dell’attività umana quasi certamente ricadrà sopra loro stesse», preconizzava Margaret Mead 70 anni fa. Sta accadendo. Cambiare la cultura aziendale per renderla naturalmente inclusiva è un processo lungo e complesso, che richiede il coinvolgimento emotivo dei dipendenti e i cui risultati sfuggono ai KPI. Ma è ciò in cui vale la pena investire adesso.

Anche la pubblicità si interroga sulle quote

I marchi e le agenzie troppo spesso cercano di inserire la diversità verso la fine della creazione di una campagna di marketing, scegliendo per esempio un cast diversificato per quote. Ma c’è un modo diverso di agire: «Si può pensare a raggiungere un pubblico diversificato durante le fasi iniziali di brainstorming della creatività», scrive qui Emmy Liederman.

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