Una poltrona per due, si può?
La storia
Dal 2018, Jennifer Zimmer e Meghan Kludt si presentano ai colloqui di lavoro come un pacchetto unico. Due al posto di una. Al momento, condividono il ruolo di direttore delle brand partnership presso un’azienda di Chicago.
In che senso?
Meghan è attiva dal lunedì al mercoledì e Jennifer dal mercoledì al venerdì. «Il nostro mercoledì» racconta Zimmer «è il giorno in cui programmiamo la maggior parte delle riunioni con i clienti». Il tutto è gestito con grande flessibilità: «Se c’è un cliente importante o una riunione interna fondamentale, siamo entrambe disponibili anche nei nostri giorni “off”». Non sono le uniche a farlo. Navreet Dhillon condivide la sua posizione di internista a San Jose, in California, con un’altra dottoressa: 3 giorni ciascuno anche nel loro caso. Ciascuna si prende cura principalmente dei suoi pazienti, ma copre anche i pazienti dell’altra quando non è presente.
Che differenza c’è con un normale part-time?
Hai mai visto un direttore marketing part-time? Probabilmente esiste, ma non è la regola. La scelta del part-time generalmente esclude dai ruoli di responsabilità. Con questa formula, invece, Jennifer e Meghan possono ambire a un ruolo dirigenziale e a una carriera appagante.
E all’azienda sta bene così?
Secondo l’autrice dell’articolo, Ericka Souter, c’è un vantaggio anche per il datore di lavoro: «Avere una posizione strategica coperta con due grandi menti invece che una». Ovviamente, la loro situazione mantiene alcuni difetti del part-time, ovvero la possibilità che si perdano informazioni e dettagli dalle riunioni a cui non si partecipa durante i giorni liberi. Ma tutto sta a perfezionare la comunicazione a due, una sfida tutto sommato abbordabile.
Come sono state inquadrate a livello amministrativo?
Per lo Stato, sono due professioniste in part time. E questo, negli Usa, significa che non hanno diritto alla pensione pubblica, all’assicurazione, all’offerta formativa per i dipendenti e alla note spese.
Cosa ci insegna questa storia?
Che condivisione è la parola chiave della nostra società. Condividere le attività di cura all’interno delle mura domestiche è un obiettivo sacrosanto da raggiungere. Ma condividere un posto di lavoro è un vero scatto di immaginazione. Che in epoca di great dimission e quiet quitting dovremmo guardare con grande interesse e attenzione.
Confessioni di una quiet quitter
Ho ricevuto questa email da una lettrice di Voices. Parla di quiet quitting ma anche di part-time, che è l’argomento di oggi. E penso che sia una lettura preziosa per tutti.
«Sono una quiet quitter. O almeno penso. O sicuramente finché non conieranno un termine ad hoc per quelli come me. Perché siamo tanti, lo so. Ho un contratto a tempo indeterminato. Part time di diciotto ore settimanali. Ho il giovedì e il venerdì liberi. Non ho bisogno di farmi cadere la penna al rintocco delle 18 perché a quell’ora sono già beatamente immersa nei fatti miei. Da ore. Mio figlio ha cinque anni e, negli ultimi tre, questo contratto mi ha permesso di gestire malattie, festività, lockdown, attività extrascolastiche e qualsivoglia tipo di imprevisto.
Solo pochi mesi prima del parto, la me 32enne ha ricevuto il suo primo contratto indeterminato, con un netto mensile che arrivava sì a 1500 euro, ma solo conteggiando i frequenti straordinari. Avevano promesso mari e monti per il mio rientro: bonus nido, promozione... dimenticandosi di specificare che fosse tutto soggetto a un’unica condizione: il mio rientro dopo la fine della maternità obbligatoria. Quando il nodo è venuto al pettine ho spiegato che non ce l’avrei fatta a rientrare così presto. Allattavo e non dormivo mai. Ho detto che se veramente meritavo quei bonus, li avrei meritati anche se fossi rientrata al compimento dell’8° mese di mio figlio. Niente da fare.
Mi sono dimessa dall’azienda in cui pensavo di aver gettato le basi della mia carriera. Qualsiasi cosa significhi. E allora eccomi finita qui, nel mio favoloso part-time che mi permette di essere la tuttofare e tuttopensare di casa senza nemmeno potermi troppo lamentare. C’è un però. Oggi io ho 37 anni e non vorrei accontentarmi. Vorrei crescere. Vorrei acquisire competenze ed esperienza da spendere nei lunghissimi anni che mi separano dalla pensione. Mi piacerebbe valorizzare al massimo le mie 18 ore settimanali per servire l’azienda. Propongo progetti, sono sempre disponibile a fare l'extra miglio, ad assumermi responsabilità che non mi competerebbero. Negli ultimi tre anni ho presentato più di 50 preventivi, dal CRM aziendale al calcolo della carbon footprint, da progetti di marketing strategico a eventi di team building. Il 95% delle proposte è stata cassata come inutile e dispendiosa.
E arrivo al punto. Io mi sento quiet quitter per forza. A quasi 40 anni senza autonomia nemmeno per acquistare le penne aziendali. Obbligata a fare solo lo stretto indispensabile, additata come “la spendacciona”. Senza imparare niente di nuovo. Tuttofare come principale skill. Micromanagerizzata. Spinta al ribasso.
Sono una quiet quitter con l’unica consolazione e convenienza di uscire alle 15.30».
E.
Questo articolo è tratto dal numero 41 del 22 ottobre 2022 della newsletter “Voices”, una newsletter settimanale di Diagonal curata da Annalisa Monfreda. Ogni settimana racconta storie, voci, dati e approfondimenti per ispirarti lungo il percorso verso un’azienda inclusiva. Siamo infatti convinte che la diversità sia la più grande opportunità di innovazione che abbiamo, l’occasione di riscrivere le regole del lavoro, di ridisegnarne i riti, gli spazi, la cultura. Se desideri iscriverti clicca qui. Ti aspettiamo!